Dove? Cosa? Come?… questa è la prima domanda che ti senti di fare quando parli della Papua.
E’ già difficile immaginarla, figuriamoci raggiungerla!
Una terra magica rimasta intatta nei secoli…
Viaggiare insegna che tutti gli uomini sono uguali; viaggiare insegna che tutti gli uomini sono diversi.
Ed è quello che mi è successo andando a Papua anzi, vi dirò di più, è come se con un ipotetica macchina del tempo andassimo indietro fino a un passato, ma così remoto da perdere qualsiasi traccia di inquinamento di civiltà industriale. Visiterò villaggi, conoscerò gente con usi e costumi totalmente diversi dai nostri, ma non per questo meno “importanti” dei nostri. Il viaggio ha inizio a Port Moresby, unica traccia di realtà occidentale resa tale dalla presenza di Australiani. Già dal primo momento l’impatto è molto duro. I tratti somatici dei locali ci fanno rivedere i nostri progenitori; piedi e pianta larga rigorosamente nudi mi accompagneranno per tutto il tempo, su ogni strada, sentiero, ruscello, albero, dandomi dimostrazione di adattamento, abilità e resistenza. Dicevo Port Moresby, un contrasto di architettura, le baracche a palafitta si contrappongono a palazzi governativi: i pochi ricchi generalmente australiani, ai locali che come dono di natura hanno la povertà. Lungo l’unica strada che costeggia il mare, mercatini improvvisati si alternano alle discariche che senza nessuna differenza, vengono prese d’assalto.
Mi inoltro tra la folla che incuriosita mi circonda: sono meravigliati dal mio aspetto, sono incuriositi dalle mie reflex; i bambini guardano e s’atterriscono dopo lo scatto col flash.
L’atmosfera è impregnata dall’odore acre del mercato; tranci di pesce e di carne avvolti da nuvole di mosche sono esposti alla mercè di tutti. Colori e odori convivono in un simbiotico legame, rendendo l’ambiente già carico di “calura appicicaticcia” ancor più invivibile. Qua e là delle chiazze rosse mi desta preoccupazione, ma ci rendo conto che la mia perplessità è infondata. Tutti indistintamente masticano una poltiglia ricavata dalla noce di “betel” che, unita alla polvere di “laim”, funge da rigeneratore energetico ed aiuta a sopportare la grande calura equatoriale e la sofferenza che essa comporta, ma soprattutto allontana lo stimolo della fame che non manca mai.
A conti fatti, il “betel nat” non è altro che un allucinogeno che aiuta a vivere i papua in quelle condizioni proibitive, e che sicuramente non risolve i problemi di denutrizione e povertà. Ma dicevo, siamo solo all’inizio.
Mi fermo per qualche giorno nella tranquilla Loloata Island, godendomi le calde acque della laguna, per poi ripartire alla volta di Tari, il cuore della Papua. L’alba ancestrale mi avvolge, rendendomi pertecipe delle tinte calde di giorno ed uno scenario incredibile si presenta davanti agli occhi. Volo verso le terre alte ed appena giungo allo pseudo aeroporto, con pista rigorosamente in terra battuta, una moltitudine di locali attorno ad una rete metallica, attende incuriosita.
Ma, attende cosa?…”il grande uccello bianco” (è quello che ho saputo dopo). L’impatto con la realtà dei Tari è violento; in un primo momento ho pensato che tutti facessero parte di un gruppo folcloristico d’accoglienza ma sono in troppi e man mano che mi avvicino, capisco che sono così normalmente “svestiti”. E’ incredibile, gli abiti sono fatti di foglie e fibre vegetali; la loro folta capigliatura è abbellita dalle piume coloratissime degli uccelli del paradiso e qua e là sparsi per tutto il corpo tatuaggi e cicatrici, queste ultime risultato di dure battaglie, ancora oggi combattute fra i clan dei villaggi. I rossi e gli ocra esaltano la durezza del volto dei guerrieri, che con atteggiamento fiero esibiscono archi, frecce ed asce di pietra.
Mi sposto lungo il sentiero che lascia la traccia di se sul profilo impervio delle colline. Ed è un continuo sali e scendi.
Paesaggi mozzafiato mi si presentano davanti agli occhi: vedo spuntare dalle terre alte donne, gravide di nuova vita ed altre ancora con bambini attaccati al seno, sgonfio di latte. Dalla fittissima foresta si materializza un uomo barbuto e colorato ed appena mi vede fugge via…Forse avrà avuto paura? io si! Avrà pensato di aver visto lo spirito di un suo antenato?.
Macchè, è corso al villaggio per annunciare il mio arrivo…ed è subito festa! mi crederanno appena rientro in Italia? mah! e chissenefrega! Mi accolgono incuriosito, mi sfiorano con lo sguardo e con il fiato; negli occhi dei piccoli vedo paura mista ad imbarazzo, alcuni di loro si allontanano, altri intimiditi accennano un sorriso.
Sono trascorsi parecchi lustri dall’ultima volta dell’ospite bianco…molti di loro non erano ancora nati. Ma dove sono?
L’entusiasmo è tanto e gli uomini vanitosi ed impeccabili, si preparano per la danza. A me degli uomini non è che interessa molto la loro vanità ma in questo frangente è meglio non farsi domande ed osservare. La miatelecamera per il momento rimane nella borsa e il mio parlare con i gesti è meglio controllarlo. Guardo e osservo. Per il momento, appunto. I colori sgargianti danno vita a figure fiere; gli ori ricavati dal grasso dei maiali e cosparsi per tutto il corpo mettono in evidenza le fasce muscolari esaltandole ancor più. Mi chiedo: chi ha detto che la vanità è solo donna? Anche i bambini, da grandi Huli Men, si truccano e si preparano il corredo per la grande festa. E le donne? Le donne sono spettatrici da sempre, ed in disparte guardano timidamente i loro uomini danzare. I ritmi tribali si fanno sempre più incalzanti e nella loro ripetuta monotonia si fondono coi canti, riecheggiando nella valle.
La mia prossima meta si sposta lungo il sentiero che mi riconduce verso Tari. Riappaiono i volti che avevo lasciato qualche tempo prima, sempre incuriositi dal mio aspetto, sempre con il fiato e lo sguardo che mi tocca. Le nebbie delle Terre Alte rendono l’aria mattutina ancor più grave e umida, e le figure eteree compaiono e scompaiono come se cancellate dall’acqua.