Steppenwolf – Born to be Wild
Benché inizialmente offerta ad altre band, come per esempio gli Human Expression, Born to Be Wild fu registrata per la prima volta dagli Steppenwolf nel 1968. Sotto il nome d’arte utilizzato ad inizio carriera di Dennis Edmonton, Mars Bonfire, autore del testo, era precedentemente un membro dei the Sparrows, gruppo predecessore degli Steppenwolf. “Born to be Wild” fu il secondo singolo del gruppo, e quello che ottenne maggiori risultati, raggiungendo la seconda posizione della Billboard Hot 100. La canzone fu originariamente pubblicata nel 1968, ma in seguito venne inclusa in numerose raccolte e colonne sonore. Il primo film ad utilizzarla nel proprio commento musicale fu Easy Rider nel 1969. A differenza della versione presente sui dischi degli Steppenwolf, la versione utilizzata in Easy Rider figurava all’inizio il rumore del motore di una motocicletta. Nel film fu inserita anche un’altra canzone degli Steppenwolf, The Pusher. Inizialmente Peter Fonda voleva Crosby, Stills and Nash per la colonna sonora del film, ma alla fine si convinse di quanto Born to Be Wild rispecchiasse lo spirito del film. Fu soprattutto a causa di questa pellicola, che il brano degli Steppenwolf è associato con la cultura dei biker. Per lungo tempo è stata usata per lo spot televisivo della Jeep Gran Cherokee.
Nella cultura popolare è spesso associata all’immagine dei biker, soprattutto a seguito del suo utilizzo nella colonna sonora del film Easy Rider. Spesso la canzone è descritta come il primo brano heavy metal mai scritto, oltre ad aver ispirato il nome dello stesso genere musicale. Benché queste affermazioni siano tuttora oggetto di discussione, il secondo verso nel testo di questa canzone (in cui si fa riferimento ad un “tuono di metallo pesante”, heavy metal thunder, in riferimento al rombo provocato dallo scoppiettio della marmitta delle motociclette – è da qui che Leonard Mogel prese l’ispirazione per coniare il nome della sua rivista artistico-cultural-musicale) è la prima registrazione in cui si utilizza l’espressione “heavy metal” in un contesto musicale.
Easy Rider
UN FILM-DICHIARAZIONE CHE CHIUDE UN’EPOCA DELLA STORIA DEL CINEMA AMERICANO E NE APRE UNA NUOVA E FECONDA.
Due hippies percorrono la strada verso New Orleans in sella alle loro moto. Durante il tragitto incontrano un eccentrico avvocato alcolizzato che decide di accompagnarli. Il film ha ottenuto 2 candidature a Premi Oscar. Dopo aver venduto una partita di cocaina messicana ad un ricco arabo, Billy e Wyatt (che si fa chiamare Capitan America) investono il ricavato in un viaggio in motocicletta alla volta di New Orleans e della grande festa di strada del Mardi Gras. Gli incontri che fanno lungo la strada raccontano l’America degli hippy, delle comuni e della celebrazione del sesso libero e delle droghe, ma anche quella dei pregiudizi duri a morire, omofoba, reazionaria e drammaticamente violenta. Girato nel ’68 ma uscito negli Stati Uniti soltanto un anno dopo, sulla spinta della consacrazione ricevuta a Cannes, Easy Rider ha immediatamente scandalizzato Hollywood e aperto la strada ad una nuova era di registi e attori e ad
un nuovo modo di fare cinema.
A tanto entusiasmo è seguito, decenni dopo, un ridimensionamento critico del film persino eccessivo. Oggi i tempi sono maturi per tornare a vederne virtù e limiti con ritrovata obiettività.
Il film di Hopper, girato quasi senza sceneggiatura, si autodichiara un western moderno, con i chopper al posto dei cavalli (una scena racconta letteralmente il passaggio di testimone), il richiamo ideologico agli indiani, ai leggendari personaggi di Billy the kid e Wyatt Earp, e la messa in primo piano di una poetica del viaggio inteso come esperienza esistenziale ma anche lisergica. Dal punto di vista stilistico, un laborioso montaggio ha ridotto la lunghezza fiume prevista inizialmente ad un film più commercialmente spendibile, che nella prima parte utilizza la narrazione in maniera episodica e minimale, quasi ad intervallare le eloquenti sequenze musicali, in un ribaltamento che è già una dichiarazione di stile, per poi concedersi, nella lunga sequenza dell’acido al cimitero, un’incursione nel linguaggio del cinema più sperimentale (già bagaglio dei precedenti cinematografici di Hopper e Fonda).
UN AMARO SOGNO DI LIBERTÀ.
Billy e Wyatt attraversano il sud dell’America in cerca di fortuna. Arrestati per aver sfilato insieme a una banda senza l’apposito permesso, vengono aiutati da un avvocato che decide di unirsi alla loro avventura. Road movie sceneggiato dai due interpreti principali, Peter Fonda e Dennis Hopper, e diretto da quest’ultimo, Easy Rider è un racconto sulla libertà, un viaggio che ha per meta il Carnevale di New Orleans, la festa della città sul grande Delta. E stavolta è necessario un racconto amarissimo e crudele, che alla fine indigna senza parole, per denunciare lo squallore e la paura della provincia bianca e borghese del sud nel 1969. Una paura che si manifesta rozzamente nei confronti di qualsiasi minima e pericolosa traccia di diversità. Se a questo aggiungiamo l’evidenza di un grande cinema, in cui i paesaggi che cambiano, gli interpreti e la musica sembrano danzare all’unisono una ballata disperata senza scampo, allora, forse, diventa facile per lo spettatore riconoscere la presenza di una visione unica e irrepetibile nell’immaginario cinematografico. E nella quale la mano dell’autore, (con quegli scatti di montaggio che anticipano spesso le inquadrature successive) si rivela in tutta al sua destabilizzante natura.