Spirito Libero – Sahara: Oasi e città carovaniere


 

 


Troppo vasto è questo mare di pietra e di sabbia perché la sola mobilità possa spiegare la sopravvivenza dell’uomo.
Occorrevano delle isole, dei punti di approdo che l’uomo ha creato con il miracolo delle oasi.
Rarefatti al punto da coprire un millesimo della superficie sahariana, questi grumi di verde rappresentano non solo le uniche fonti di vita agricola nel deserto, ma anche i preziosi nodi del grande tessuto commerciale che per tanti secoli ha animato il vuoto tra le sponde mediterranee e l’Africa nera.


Se si riunissero le oasi del Sahara in un insieme unitario si totalizzerebbe nel complesso una superficie non più grande di una nostra regione. Il rapporto tra superficie del Sahara e superficie di questo ipotetico “Sahara utile” sarebbe di uno a mille. Ma le oasi si caratterizzano appunto per la loro frammentazione e il loro isolamento.
Sono piccole superfici scure che, a vederle dall’aereo, incutono sgomento a confronto delle grandi vastità circostanti.
Con esse le oasi non stabiliscono rapporti diretti e continui, come li stabiliscono ad esempio i centri delle regioni a popolamento continuo, dove la città e i paesi hanno nello spazio circostante il loro dintorno vitale. Le oasi sono piccoli spazi che accolgono il centro abitato e il ristretto spazio verde che offre a esso le risorse agricole. Fuori dall’ombra della palmeraie c’è il deserto, più o meno simile a dieci come a cento chilometri di distanza.







La geografia del Sahara è fatta pertanto di un tessuto puntiforme, la cui maglia si adegua alla distribuzione delle risorse idriche che gli uomini, a partire dai secoli lontani, sono riusciti a sfruttare creando centri di vita agricola e di popolamento.
Esse però non sono soltanto centri di vita: sono anche “approdi” nel grande mare del Sahara, che è percorso da traffici e piste che ne indicano la penetrabilità. Non si può spiegare il Sahara, e neppure le oasi che ne indicano la vita, per quanto precaria e sparsa, se non si tiene conto di questi rapporti, di questa maglia che percorre il deserto sin da epoche remotissime.
Le oasi si sono infatti costituite e hanno preso sviluppo proporzionalmente non solo alle loro risorse idriche, ma anche, se non soprattutto, alla loro funzione di approdi, di scali, di nodi della rete di traffici e comunicazioni del Sahara.
Ci sono le oasi che sfruttano l’acqua di scolo dei fiumi provenienti da zone piovose: è il caso delle oasi marocchine che utilizzano l’acqua dei fiumi Ziz e Draa alimentati dalle nevi dell’Atlante: successione di oasi resa possibile dall’abbondante apporto d’acqua dei fiumi che poi si perde nel Sahara dopo aver permesso la vita delle oasi.









Ci sono le oasi che si riforniscono dell’acqua di preziose sorgenti, come la grande oasi di Gadames, in Libia.
Altre che traggono l’acqua da pozzi, come le oasi dello Mzab. Nel souf si ha un tipo d’oasi ancora diverso, in quanto utilizza una falda acquifera relativamente superficiale rintracciabile sotto la coltre sabbiosa: da ciò deriva quella spettacolare frammentazione di palmeti situati in piccole cavità ( ghout ), profonde circa 20 metri ognuna, sul fondo delle quali allignano poche decine di palme tutt’intorno riparate dall’invasione delle sabbie da opportune difese. Allo sfruttamento di una ricca falda d’acqua che trae alimento dal massiccio del Tademait si deve anche l’oasi di In-Salah, formata da un grande palmeto che si allinea per qualche chilometro in rapporto alla stessa falda e che si dispone con gli orti e i palmeti in opposizione al vento ( l’aliseo ) che tende a colmare di sabbia le colture, anche qui difese da ripari fatti di rami di palme ( afregs ).







Sull’altro lato del Tademait le oasi di Timimoun appaiono come un delicato congegno che si regge grazie alle foggare, le lunghe gallerie sotterranee che attingono le acque da falde lontane e che la trasportano, con adeguata pendenza, cioè per scorrimento, sino all’oasi.
Le Foggare, scavate e tenute pazientemente in funzione dagli iklan specializzati, sono un prodigio della tecnica sahariana di adattamento all’ambiente desertico: esse tuttavia non rappresentano che la variante dei qanat avviati in epoche remote sull’altopiano iranico e poi diffusesi, attraverso il mondo arabo, sino al Sahara.

Spirito Libero – Kenya: Etnia Kikuju

ultimo aggiornamento 27 dicembre 2023



“Quando il cuore è colmo di collera, questa fuoriesce dalla bocca”.
(proverbio Kikuyu, Kenya).


I Kikuyu (o Gikuyu) sono una popolazione di agricoltori di lingua bantu che vive nel Kenya centrale.
L’organizzazione sociale poggiava sulla discendenza patrilineare e su un sistema di classi d’età che aveva come soggetti principali i guerrieri (anake) e gli anziani riuniti in consiglio (kiama).
La gestione del potere era basata su un sistema di avvicendamento generazionale che mirava a evitare cristallizzazioni di potere.





La comunità era così divisa in due categorie, mwangi e maina, se una generazione era mwangi, i figli dovevano essere maina, i nipoti nuovamente mwangi e così di seguito.
I Kikuyu, colpiti dalla requisizione britannica delle loro terre che ai primi del novecento li aveva trasformati in “occupanti abusivi” e dal confinamento nelle riserve, furono tra le popolazioni più attive nella lotta di liberazione anticoloniale, già a partire dagli anni venti, con la creazione della Kikuyu Central Association che aveva fra i suoi membri il futuro presidente del kenya Jomo Kenyatta.
Furono poi i protagonisti della sollevazione dei Mau mau, l’associazione segreta nata dai gruppi più poveri della società Kikuyu (disoccupati delle città, gente cacciata dalle proprie terre e i contdini delle riserve).



 

 

Scudo cerimoniale Kikuyu, Kenya, collezione privata
 
Gli scudi sono dipinti a motivi geometrici su entrambi i lati; il disegno varia a seconda del gruppetto di iniziati; quello sul retro spesso ricorda la forma di un occhio e della palpebra.
Gli scudi usati nelle danze d’iniziazione dei guerrieri sono di legno o corteccia, diversamente da quelli utilizzati in guerra che sono di pelle animale.
La parte posteriore dello scudo è provvista di una cavità in cui viene infilato il braccio: lo scudo non è quindi manipolato con la mano ma flettendo il braccio.
Quando gli inglesi invasero quello che è l’attuale Kenya, sorprendentemente non trovarono la resistenza dei Masai, come si aspettavano, ma quella dei guerrieri Kikuyu.
La lotta (data la superiorità delle armi da fuoco) fu breve ma lasciò un segno profondo nella memoria collettiva Kikuyu.

 

 

Spirito Libero: Uganda – Rwanda: nel cuore dell’Africa

ultimo aggiornamento 11 Gennaio 2024



L’Uganda è un Paese dimenticato da molti anni e oggi tutto da riscoprire, paradiso incontaminato e porta aperta verso L’Africa selvaggia.




Ci siamo, domani all’alba si parte.
Sembra impossibile ma il grande giorno è arrivato. Mai il suono della sveglia è stato il ben venuto come oggi; inizia l’agitazione e l’attesa, poi, finalmente, si decolla.
Il profumo dell’Africa si è già impadronito di me, dei miei polmoni, dei miei abiti, della mia pelle.
Kampala è la tipica città africana piena di vita, di rumori, di macchine che si infilano da tutte le parti, dove i semafori sono pochissimi e sostituiti dagli immancabili clacson. Ed eccoli, i marabù: sui tetti e nei giardini, come sentinelle impassibili, qusti bizzarri uccelli giganti si aggirano tra i rifiuti svolgenti un ruolo ecologico importantissimo.
E’ mattina. Saliamo su una barca veloce che scivola per un’ora tra le isole del lago Vittoria.
L’isola di Ngamba è un santuario per la protezione dei scimpanzé orfani e quelli che venino sequestrati in dogana, a qualche delinquente che pensava di portarsi un pezzo d’Africa nel suo appartamento a Milano o New York; ancora peggiore è la sorte degli scimpanzé trovati incatenati e usati nei circhi locali o come animali da compagnia sin tanto che non diventano troppo grossi per non poterli più trattare come cagnolini e non si esiti a imprigionarli e incatenarli.
I più fortunati vengono scoperti e portati qui.




La riserva appartiene, come quelle del Kenya, Tanzania e Repubblica democratica del Congo, alla fondazione di Jane Goodall, la donna che ha fatto conoscere gli scimpanzé in tutto il mondo, quella che ha scoperto che anche questi animali usano gli utensili gettando sgomento nel mondo scientifico perché, come disse il famoso paleontrapologo Louis Leakey, “Ora dobbiamo ridefinire l’uomo, ridefinire gli utensili o accettare gli scimpanzé come esseri umani”. Ma al di là di tutte le prove scientifiche, basta guardargli negli occhi, e l’1,6 per cento di dna che ci separa svanisce. Riprendiamo la strada, finalmente raggiungiamo il Kibale National Park.
Scendo dalla jeep e sono già pronta, ho tutto quello che mi serve per inoltrarmi nella foresta alla ricerca degli scimpanzé.
Siamo fortunatissimi, siamo soli con la guida, lungo la strada sono circondata da farfalle che al mio passaggio disegnano nuvole di colore.

 
 

Il sentiero diventa sempre più stretto, siamo senza machete e progrediamo a fatica, il sottobosco è fittissimo e, man mano che avanziamo, cresce in me l’agitazione. Il primo nido notturno è un tuffo al cuore: ci siamo, li sentiamo, urla e rumore di rami spezzati ci fanno capire che sono lì, a pochi passi, nascosti alla vista solo dal folto della vegetazione.
Il nostro primo scimpanzé ci accoglie silenzioso facendoci la pipì in tsta; non importa, continuano ad avanzare e ci accorgiamo che stiamo camminando su su un tappeto di frutti simili alle nostre albicocche: sono la ghiottoneria degli scimpanzé, che, sui rami sopra di noi, mangiano con gusto questi frutti, con le mani li aprono a metà e addentano la parte più dolce, quella intorno al nocciolo, per poi lasciare cadere il resto. E’ tutto un tonfo, non sappiamo più dove guardare, il profumo dolciastro dei frutti in decomposizione ci stordisce, è troppo bello per essere vero!.


 

 

 


E’ sera, siamo arrivati al Queen Elizabeth National Park, passiamo il gate e come sempre, malgrado la luce se ne stia andando, mi alzo in piedi sul sedile della jeep, quasi a catapultarmi nell’immensità.
Respiro a pieni polmoni l’aria di sole e di savana, un ippopotamo dietro una curva ci dà il benvenuto.
Siamo al Mweya Safari Lodge. E’ bellissimo, il lago Edward da una parte e il canale Karinga dall’altra. Bande di manguste si aggirano incuranti degli uomini, il loro sguardo è oltre, spariscono con la rapidità con cui sono comparse. I gechi sfidano la forza di gravità, consumano silenziosi la loro cena, le aquile pescatrici con il loro lamento si gettano nel canale per riemergere con un pesce tra gli artigli.
Siamo seduti nella veranda della nostra camera godendoci un po’ di relax e a pochi metri da noi avanza inginocchiata e silenziosa una famiglia di facoceri intenta a brucare l’erbetta fresca. Si fermano davanti a noi e la macchina fotografica diventa incandescente. E’ l’alba, progediamo lentamente, fermandoci a ogni istante, e ben presto scorgiamo il primo gruppo di elefanti che pigramente sta risalendo dal canale; animali in continuo movimento attraverso il Q.E.N.P alla ricerca di acqua, cibo e ombra. Scorgiamo i leoni che si crogiolano nella loro pigrizia senza perde d’occhio i cuccioli impegnati in agguati immaginari.


 

 

 


 

I kilometri e le ore scorrono veloci.
In barca risaliamo il canale Kazinga sino al lago George, un ranger del parco ci accompagna, mandrie di elefanti scesi ad abbeverarsi popolano le rive, bufali e ippopotami ricoprono l’acqua, aironi, aquile, pellicani, cormorani e molti altri uccelli si alzano in volo al nostro passaggio. Un altro giorno, un’altra emozione, ancora loro, gli scimpanzé. Siamo nel Kyambura Gorge e, dopo un breve breafing con i ranger, partiamo alla loro ricerca. Siamo così concentrati sugli scimpanzé che non apprezziamo la presenza di tutte le altre scimmie che guardano curiose. Ci imbattiamo in un enorme albero caduto che il caso ha trasformato in ponte naturale. Un senso di inquietudine mi assale. Come prevedevo, il ranger ci dice che dobbiamo attraversarlo. Ci guardiamo tutti, senza sapere cosa dire, eccitati dall’idea di fare un’esperienza degna di Indiana Jones, ma impauriti pensando all’eventualità di cadere nell’acqua sottostante che scorre veloce, anche se in fondo la paura più che per me è per il mio binocolo e la mia macchina fotografica.


 




I ranger, con la disinvoltura data dalla quotidiana esperienza, passano sull’altra sponda velocemente.
Quando arriva il mio turno tutto si blocca, il mio procedere è così lento che sembro ferma, ma ce la faccio, il richiamo degli scimpanzé è troppo forte. Purtroppo il tempo in Africa passa così velocemente che è già ora di risalire il sentiero. Ripartiamo e, lungo una strada di un rosso africano, con buche africane, attraversiamo villaggi sperduti dove il tempo è scandito da movimenti antichi. Ancora un giorno e potrò incontrare i gorilla. Desidero questo momento da sempre, e ora che il mio sogno si sta realizzando, ho il terrore che succeda qualcosa. Gli ibis ci danno la sveglia. Arriviamo al confine con il Rwanda che la dogana è ancora chiusa; aspettiamo, arriva il funzionario ugandese, ci controlla i passaporti e ci lascia passare: siamo nella terra di nessuno, quella compresa tra le due sbarre che separano due stati. La sbarra si alza. Rwanda, il paese delle mille colline.


 


 


Due parole si rincorrono nella mia mente: Hutu e Tutsi, una lingua, una religione, un popolo che l’arroganza e la malvagità di noi occidentali ha condannato al genocidio. Sento su di me una cappa di dolore inespresso, che mi toglie il fiato; scruto il volto delle persone che incontro per cercar di capire…ma non ci riesco. Dappertutto ci sono cartelli che invitano alla riconciliazione, si cerca di ricostruire la dignità di un popolo, parlo a lungo di questo con un rwandese, ma non trovo risposte alle mie domande. Il lucido pavimento bianco dell’atrio del Gorilla Nest ci accoglie. Guardo i miei scarponi ricoperti di fango, cerco di pulirli come posso ma è un’impresa disperata. Decido così di toglierli, sotto gli occhi divertiti del personale del lodge.
Pioviggina, le cime dei vulcani Karisimbi, Bisoke, Sabyniyo, Gahinga e Muhabura sono circondate da strati di nubi.
Le guide del Parc des Volcanos ci accolgono sorridenti, si vede che amano il proprio lavoro. In Rwanda tutti i gorilla sono controllati a vista da ranger armati che dall’alba al tramonto li sorvegliano dal pericolo dei bracconieri. Si, perché può sembrare impossibile, ma esistono ancora i bracconieri. Si formano i gruppi, tutti abbiamo negli occhi la stesa eccitazione e la consapevolezza che stiamo per condividere un momento importante. Con la macchina ci avviciniamo al punto d’incontro con la scorta armata. Il sentiero fangoso da subito si inerpica ripido, si procede di buon passo, gocce di sudore mi scendono negli occhi, percepisco che l’acqua prigioniera nel mio corpo piano piano lo abbandona. La foresta che attraversiamo è bellissima, fitta, inaccessibile, ricca di vita e di umidità. Ma ecco i gorilla!




Il sudore, la fatica e la stanchezza svaniscono di colpo, non si ha più né sete né fame, lo spettacolo del silverback che avanza pacifico tra i rami toglie il fiato. I gorilla sono dappertutto, divisi in piccoli gruppi, le femmine cullano i loro piccoli tra braccia possenti eppure il gesto è delicato. Ci guardano, i cuccioli ci sfidano, alcuni simulano attacchi e il rumore della nocche sul petto fa una certa impressione. Quello che mi colpisce non è quello che fanno, ma come lo fanno.
Giocano, si rincorrono, si grattano, si siedono come noi. A un certo punto siamo tutti così concentrati su un gruppo di giovani e non ci accorgiamo che una mamma con il suo piccolo cammina tra di noi, appoggia delicatamente la sua mano sulla spalla di un ragazzi australiano chinato per fotografare, quasi a chiedere il permesso; il ragazzo si gira, pensa che sia uno di noi, il tempo si ferma…Poi, mamma con il cucciolo passa oltre e, ignara del regalo che ci ha fatto, raggiunge il suo gruppo.
Anche questa volta non andrò a visitare la tomba di Dian Fossey e di Digit: so che lei non approverebbe tutti questi turisti che violano le sue montagne e i suoi gorilla.




Tutta l’umanità ha un debito di riconoscenza nei suoi confronti, è grazie a lei se oggi questi primati sopravvivono.
lasciamo il Rwanda e rientriamo in Uganda.
Il momento tanto temuto è arrivato, è il momento dei saluti, degli abbracci e delle promesse. Non ci sono parole per descrivere cosa provo ogni volta che lascio l’Uganda: è un pugno nello spomaco che mi toglie il respiro, è un magone che nasce dal cuore e sale sino agli occhi, sono lacrime di gratitudine e di disperazione che non riesco a trattenere. So che tornerò ma in quel momento so solo che sto partendo.


 

Spirito Libero – Tanzania: Il Kilimangiaro la casa di Dio

ultimo aggiornamento 8 Dicembre 2024



Tanzania, Il Kilimangiaro, la casa di Dio.


 
Racconti di viaggio: Tanzania, Il Kilimangiaro, la casa di Dio.
Dalle imprese di Hans Meyer ai viaggiatori di oggi.

 

Il Kilimangiaro, un nome che più di ogni altro richiama alla mente l’Africa orientale, sorge tra il  Kenya e la Tanzania.
E ovunque siate, nel parco di Amboseli o nel cratere di Ngorongoro, vedrete la sua vetta stagliarsi maestosa all’orizzonte e in lontananza chiudere la savana, facendo da sfondo alle acacie dalle quali spuntano le teste delle zebre e vegliando sul sonno dei leoni.
E’ l’icona dei paesaggi africani, grande come il mondo, immensa, alta e bianchissima, scriveva Ernest Hemingway in uno dei più bei libri dedicati all’Africa, “Le nevi del Kilimangiaro”.
Corrono le Range Rover e davanti fuggono all’impazzata gli animali, ma nel cuore di tutti lo stesso folle desiderio: calcare le nevi del Kilimangiaro, il gesto simbolico che conclude degnamente i migliori safari.
Riuscì in questa impresa il tedesco Hans Meyer nel 1889, il primo a calpestare le nevi delle montagne della luna, come le chiamò il geografo greco Claudio Tolomeo che nel secondo secolo della nostra era sfatò le leggende sorte intorno a questo monte fino ad allora avvolto in un alone mistico, e ritenuto inviolabile dalle tribù chagga che ne popolavano le pendici.





 

Ma mille insidie ostacolano il folle sogno. pur non essendo una cima irrangiungibile, il Kilimangiaro è pur sempre il tetto d’Africa, e dei 120.000 escursionisti che ogni anno intraprendono l’ascensione soltanto 7.000 arrivano alla vetta più alta del Continente Nero, L’Uhuru Peak.
A 5.895 metri di altitudine l’aria è povera di ossigeno e contemplare lo spettacolo grandioso del sole che si leva sopra lo strato di nuvole che ogni giorno, all’alba, si forma ai piedi della montagna, è un privilegio riservato agli scalatori allenati.
Le difficoltà non sono soltanto fisiche ma anche organizzative perchè il Kilimangiaro non è il Monte Bianco, dove basta prendere uno zaino, armarsi di picozza e partire per l’avventura.
Il massiccio si trova entro i confini del parco Nazionale del Kilimangiaro dove per regolamento è fatto obbligo, prima di intraprendere la scalata, versare numerose tasse a una società di trekking debitamente autorizzata.
Una volta assolto questo compito, e dopo aver scelto accuratamente la guida e i portatori, si può dare avvio alla cordata.






I percorsi sono otto e la via più agevole è la Marangu Route che è quella che descriverò.
Il campo base, il villaggio di Marangu, in mezzo a piantagioni di caffè e banani, è una sorta di Katmandù africana, specie per la fauna che vi si aggira, composta da puristi della montagna, scalatori accaniti e perdigiorno affetti dal mal d’Africa.
Qui si può acquistare l’equipaggiamento necessario e si raccolgono per mettersi a vostra disposizione, come altrettanti sherpa, i portatori chagga; il punto d’incontro è all’altezza dell’ufficio postale, in prossimità della fermata del pullman.
Raggiunto il Marangu Gate, a cinque chilometri sopra il villaggio, inizia la prima tappa che porta al rifugio Mandara Hut a 2.750 metri.
Quattro ore di marcia per superare un dislivello di 750 metri, in mezzo a una generosa foresta equatoriale di liane aggrovigliate, di caucciù e alberi giganti, di orchidee e felci, di scimmie blu e uccelli multicolori.
Si accoglie con sollievo la sosta al Mandara Hut perchè il fango e il tasso di umidità hanno smorzato l’entusiasmo iniziale e stremato il corpo.
Che importa se ci si deve accontentare di un dormitorio con i letti a castello; sarete lieti di essere arrivati al rifugio, una dolce locanda dove, venuta la sera, avrete voglia di indugiare accanto al caminetto e restare alzati fino a tardi.
La notte trascorre piacevolmente e assai diversa da quelle che seguiranno.





Al risveglio il programma del giorno annuncia sette ore di marcia, per 14 kilometri e 1.000 metri di dislivello.
Lasciata alle spalle la foresta equatoriale, l’escursionista vede finalmente la cima del kilimangiaro, e, se non è allenato( come il sottoscritto) comincia a dubitare.
A ogni 200 metri di dislivello la temperatura diminuisce di un grado, e a poco a poco l’erba alta lascia il terreno alla brughiera, ai senecioni e alle lobelie;  in cielo si librano le aquile; in lontananza, sulle pendici del Mawenzi, a 3.720 metri, ci aspetta il rifugio Horombo Hut, la meta da raggiungere dopo aver attraversato una moltitudine di coni vulcanici, simili a giganteschi termitai;
Il ritmo cardiaco imbizzarisce, ed ecco allora il consiglio del viaggiatore stanco!!! : riposare per un giorno all’Horombo per acclimatarsi, riprendere fiato e prepararsi alla terza tappa che non è  propriamente una passeggiata in campagna: si superanno altri 1.000 metri di dislivello per raggiungere il Kibo Hut.
Protagonista assoluta della terza giornata è la natura, sovrana e immensa: un paesaggio desertico e lunare plasmato dal fuoco, dal ghiaccio, dal vento, e in basso la distesa verde della savana, una bellezza sontuosa che annuncia quella sublime che il kilimangiaro ha in serbo per i più tenaci.
L’aria  è rarefatta sotto il tetto del Kibo Hut; pochi riescono a dormire a 4.703 metri di altitudine, sicchè all’una del mattino, quando si riprende la marcia, il volto degli escursionisti è segnato da una smorfia di inquietudine.
La temperatura è scesa di venti gradi, il mal di montagna è in agguato; a molti la saggezza consiglia ancora una volta di tornare indietro tanto più che  la legge vieta ai portatori di  accompagnare gli escursionisti nell’ultimo tratto e li costringe ad aspettare il ritorno al Kibo Hut.


Dopo cinque ore di marcia estenuante, nel momento di calcare la cresta del cratere di Gillman’s Point, spunta la luce del giorno e il sipario si alza sul paesaggio più sublime del Kilimangiaro: la caldera ricoperta dal ghiacciaio Furtwangler nel cuore del quale si leva fino a 5.895 metri l’Uhuru Peak.
Un’altra ora di salita tra cattedrali di ghiaccio continuamente rimodellate dal vento e dal riscaldamento del terreno, e finalmente il Kilimangiaro è ai miei piedi; all’orrizonte il sole, che sale sopra le nubi e l’Oceano Indiano, illumina il tetto d’Africa.