ultimo aggiornamento 8 Dicembre 2024
Tanzania, Il Kilimangiaro, la casa di Dio.
Racconti di viaggio: Tanzania, Il Kilimangiaro, la casa di Dio.
Dalle imprese di Hans Meyer ai viaggiatori di oggi.
Il Kilimangiaro, un nome che più di ogni altro richiama alla mente l’Africa orientale, sorge tra il Kenya e la Tanzania.
E ovunque siate, nel parco di Amboseli o nel cratere di Ngorongoro, vedrete la sua vetta stagliarsi maestosa all’orizzonte e in lontananza chiudere la savana, facendo da sfondo alle acacie dalle quali spuntano le teste delle zebre e vegliando sul sonno dei leoni.
E’ l’icona dei paesaggi africani, grande come il mondo, immensa, alta e bianchissima, scriveva Ernest Hemingway in uno dei più bei libri dedicati all’Africa, “Le nevi del Kilimangiaro”.
Corrono le Range Rover e davanti fuggono all’impazzata gli animali, ma nel cuore di tutti lo stesso folle desiderio: calcare le nevi del Kilimangiaro, il gesto simbolico che conclude degnamente i migliori safari.
Riuscì in questa impresa il tedesco Hans Meyer nel 1889, il primo a calpestare le nevi delle montagne della luna, come le chiamò il geografo greco Claudio Tolomeo che nel secondo secolo della nostra era sfatò le leggende sorte intorno a questo monte fino ad allora avvolto in un alone mistico, e ritenuto inviolabile dalle tribù chagga che ne popolavano le pendici.
Dalle imprese di Hans Meyer ai viaggiatori di oggi.
Il Kilimangiaro, un nome che più di ogni altro richiama alla mente l’Africa orientale, sorge tra il Kenya e la Tanzania.
E ovunque siate, nel parco di Amboseli o nel cratere di Ngorongoro, vedrete la sua vetta stagliarsi maestosa all’orizzonte e in lontananza chiudere la savana, facendo da sfondo alle acacie dalle quali spuntano le teste delle zebre e vegliando sul sonno dei leoni.
E’ l’icona dei paesaggi africani, grande come il mondo, immensa, alta e bianchissima, scriveva Ernest Hemingway in uno dei più bei libri dedicati all’Africa, “Le nevi del Kilimangiaro”.
Corrono le Range Rover e davanti fuggono all’impazzata gli animali, ma nel cuore di tutti lo stesso folle desiderio: calcare le nevi del Kilimangiaro, il gesto simbolico che conclude degnamente i migliori safari.
Riuscì in questa impresa il tedesco Hans Meyer nel 1889, il primo a calpestare le nevi delle montagne della luna, come le chiamò il geografo greco Claudio Tolomeo che nel secondo secolo della nostra era sfatò le leggende sorte intorno a questo monte fino ad allora avvolto in un alone mistico, e ritenuto inviolabile dalle tribù chagga che ne popolavano le pendici.
Ma mille insidie ostacolano il folle sogno. pur non essendo una cima irrangiungibile, il Kilimangiaro è pur sempre il tetto d’Africa, e dei 120.000 escursionisti che ogni anno intraprendono l’ascensione soltanto 7.000 arrivano alla vetta più alta del Continente Nero, L’Uhuru Peak.
A 5.895 metri di altitudine l’aria è povera di ossigeno e contemplare lo spettacolo grandioso del sole che si leva sopra lo strato di nuvole che ogni giorno, all’alba, si forma ai piedi della montagna, è un privilegio riservato agli scalatori allenati.
Le difficoltà non sono soltanto fisiche ma anche organizzative perchè il Kilimangiaro non è il Monte Bianco, dove basta prendere uno zaino, armarsi di picozza e partire per l’avventura.
Il massiccio si trova entro i confini del parco Nazionale del Kilimangiaro dove per regolamento è fatto obbligo, prima di intraprendere la scalata, versare numerose tasse a una società di trekking debitamente autorizzata.
Una volta assolto questo compito, e dopo aver scelto accuratamente la guida e i portatori, si può dare avvio alla cordata.
I percorsi sono otto e la via più agevole è la Marangu Route che è quella che descriverò.
Il campo base, il villaggio di Marangu, in mezzo a piantagioni di caffè e banani, è una sorta di Katmandù africana, specie per la fauna che vi si aggira, composta da puristi della montagna, scalatori accaniti e perdigiorno affetti dal mal d’Africa.
Qui si può acquistare l’equipaggiamento necessario e si raccolgono per mettersi a vostra disposizione, come altrettanti sherpa, i portatori chagga; il punto d’incontro è all’altezza dell’ufficio postale, in prossimità della fermata del pullman.
Raggiunto il Marangu Gate, a cinque chilometri sopra il villaggio, inizia la prima tappa che porta al rifugio Mandara Hut a 2.750 metri.
Quattro ore di marcia per superare un dislivello di 750 metri, in mezzo a una generosa foresta equatoriale di liane aggrovigliate, di caucciù e alberi giganti, di orchidee e felci, di scimmie blu e uccelli multicolori.
Si accoglie con sollievo la sosta al Mandara Hut perchè il fango e il tasso di umidità hanno smorzato l’entusiasmo iniziale e stremato il corpo.
Che importa se ci si deve accontentare di un dormitorio con i letti a castello; sarete lieti di essere arrivati al rifugio, una dolce locanda dove, venuta la sera, avrete voglia di indugiare accanto al caminetto e restare alzati fino a tardi.
La notte trascorre piacevolmente e assai diversa da quelle che seguiranno.
Al risveglio il programma del giorno annuncia sette ore di marcia, per 14 kilometri e 1.000 metri di dislivello.
Lasciata alle spalle la foresta equatoriale, l’escursionista vede finalmente la cima del kilimangiaro, e, se non è allenato( come il sottoscritto) comincia a dubitare.
A ogni 200 metri di dislivello la temperatura diminuisce di un grado, e a poco a poco l’erba alta lascia il terreno alla brughiera, ai senecioni e alle lobelie; in cielo si librano le aquile; in lontananza, sulle pendici del Mawenzi, a 3.720 metri, ci aspetta il rifugio Horombo Hut, la meta da raggiungere dopo aver attraversato una moltitudine di coni vulcanici, simili a giganteschi termitai;
Il ritmo cardiaco imbizzarisce, ed ecco allora il consiglio del viaggiatore stanco!!! : riposare per un giorno all’Horombo per acclimatarsi, riprendere fiato e prepararsi alla terza tappa che non è propriamente una passeggiata in campagna: si superanno altri 1.000 metri di dislivello per raggiungere il Kibo Hut.
Protagonista assoluta della terza giornata è la natura, sovrana e immensa: un paesaggio desertico e lunare plasmato dal fuoco, dal ghiaccio, dal vento, e in basso la distesa verde della savana, una bellezza sontuosa che annuncia quella sublime che il kilimangiaro ha in serbo per i più tenaci.
L’aria è rarefatta sotto il tetto del Kibo Hut; pochi riescono a dormire a 4.703 metri di altitudine, sicchè all’una del mattino, quando si riprende la marcia, il volto degli escursionisti è segnato da una smorfia di inquietudine.
La temperatura è scesa di venti gradi, il mal di montagna è in agguato; a molti la saggezza consiglia ancora una volta di tornare indietro tanto più che la legge vieta ai portatori di accompagnare gli escursionisti nell’ultimo tratto e li costringe ad aspettare il ritorno al Kibo Hut.
Dopo cinque ore di marcia estenuante, nel momento di calcare la cresta del cratere di Gillman’s Point, spunta la luce del giorno e il sipario si alza sul paesaggio più sublime del Kilimangiaro: la caldera ricoperta dal ghiacciaio Furtwangler nel cuore del quale si leva fino a 5.895 metri l’Uhuru Peak.
Un’altra ora di salita tra cattedrali di ghiaccio continuamente rimodellate dal vento e dal riscaldamento del terreno, e finalmente il Kilimangiaro è ai miei piedi; all’orrizonte il sole, che sale sopra le nubi e l’Oceano Indiano, illumina il tetto d’Africa.